- Prima di tutto grazie per la tua disponibilità. Iniziamo con una domanda ovvia: come è nato questo libro?
Direi che è nato a partire da una sottile inquietudine che mi invadeva ogni volta che leggevo Borges. Anche se fino ad allora mi ero lasciato prendere più dal silenzio che dalla scrittura fluida, mi intrigava vedere una persona cieca, a cui mancava il più fondamentale dei sensi, scrivere con tale disinvoltura, con tale precisione e ricchezza. Poi, un giorno vidi una foto di João Cabral de Melo Neto, cieco, al centro della sala di casa sua, mentre affermava con il fotografo di non essere più capace di scrivere e che la poesia lo aveva abbandonato. In quel contrasto sentii che c’era un libro. Ma dato che non volevo che fosse soltanto l’espressione di quello squilibrio, tra lo scrittore cieco che superò l’avversità e quello che si arrese al silenzio, andai in cerca di una terza figura, che arricchisse sia la ricerca sia la prospettiva. Tra tanti scrittori ciechi, valutai Omero, Milton, Camilo Castelo Branco, Fante, Sartre, fino a imbattermi nel caso emblematico di Joyce, che ritenni la scelta giusta per creare una composizione compiuta, coesa e complessa allo stesso tempo.
- Leggendo il libro è evidente il rispetto e la sensibilità con cui ti sei avvicinato a questi tre autori, ma ti sei mai chiesto cosa ne avrebbero pensato loro di questa tua opera sulle loro vite?
Bella domanda, non credo di essermelo mai chiesto, non mi sono azzardato a farlo, ecco il vantaggio di ritrarre scrittori morti. Quello che posso dire è che il libro ha un certo carattere tipico di Borges, per quanto riguarda l’evocazione del reale dentro il territorio romanzato, e per la capacità, così peculiare in lui, di saper mescolare finzione e critica letteraria. Da questo punto di vista, forse Borges non lo avrebbe disprezzato tanto. D’altro canto, Joyce avrebbe senza dubbio respinto un ritratto così diretto delle sue idiosincrasie e fissazioni, delle credenze e superstizioni che tentava di negare e che invece non lo avrebbero mai abbandonato. Al giudizio di João Cabral non voglio nemmeno pensare, si sarebbe sicuramente lamentato per l’inutilità di tutto quello sforzo, così inessenziale, così poco concreto.
- Se potessi tornare indietro nel tempo, sceglieresti di passeggiare per Buenos Aires in compagnia di Borges, assistere a una corrida a Siviglia con Cabral o prendere lezioni di inglese da Joyce a Trieste?
Forse varrebbe la pena sottolineare che questi scrittori non sono tra i più simpatici. Sono soggetti affascinanti, brillanti, ma forse non in grado di offrire la migliore delle compagnie in nessuna circostanza. A causa di un personale rifiuto delle corride e conoscendo la scontrosità di Joyce con i suoi allievi, non mi resta che scegliere una passeggiata con Borges per le strade di Buenos Aires. Sarebbe un’esperienza davvero in grado di lasciare un segno: molti interlocutori del grande autore argentino ci hanno lasciato resoconti significativi di quelle passeggiate, che si convertivano in dimostrazioni impressionanti di erudizione e capacità di riflessione.
- Perché scrivere della cecità? Quanto conta per un autore la vista e che ruolo hanno i sensi per uno scrittore?
Scrivere, come ho già detto, può essere fin da subito un atto tremendamente doloroso. Esercitare tale abitudine senza poter scorgere il mondo e senza poter intravedere il contorno di ciascuna parola sulla pagina mi sembra qualcosa di così insolito da essere quasi impossibile. Per questo ho voluto scriverne. Sospettavo inoltre che, prescindendo dal senso principale, queste persone avessero acquisito con gli altri sensi una qualche abilità speciale, una sensibilità maggiore al suono, al tocco, al sapore o un’attenzione maggiore ai movimenti interni delle proprie menti. Tuttavia, ritengo che tale sospetto non sia stato confermato pienamente: c’è molta mistificazione quando si parla della chiaroveggenza offerta dalla cecità.
- Borges e Joyce sono autori molto noti e amati in Italia, lo stesso non si può dire di João Cabral de Melo Neto, infatti delle sue opere sono state tradotte solo Morte e vida Severina e alcuni estratti, cosa dovremmo assolutamente leggere del poeta minerale per conoscerlo meglio?
L’opera di João Cabral è breve, la sua intera composizione poetica non supera le ottocento pagine. Ed è di un rigore, di una consistenza spaventosa: non c’è in João Cabral una sola poesia precaria e mal imbastita, una sola poesia in cui non risalti per lo meno qualche verso ingegnoso. Forse, l’unica eccezione è rappresentata dall’ultimo lavoro sull’impossibilità di scrivere poesie quando si è ciechi, ed è stato proprio a causa di questo contrasto che ho voluto riprodurre quell’opera nel libro. In sintesi, vale la pena pubblicare tutto di João Cabral. Ma se dovessi scegliere una sola opera, sceglierei l’enigmatica “A educação pela pedra”[1].
- Il tuo essere bilingue spagnolo/portoghese e la tua esperienza come traduttore letterario ti rendono un autore consapevole dell’importanza del ruolo del traduttore, cosa si prova a leggere le proprie parole in un’altra lingua? Prevale la curiosità o il timore di essere frainteso?
Fortunatamente, il mestiere di traduttore mi rende chiaramente consapevole che non esistono conversioni perfette, non esistono sinonimi esatti nemmeno all’interno di una lingua, ogni parola esprime ciò che esprime in modo unico, intraducibile. Pertanto, non ripongo alcuna aspettativa sul fatto che le intenzioni e i significati vengano mantenuti una volta trasposti in un’altra lingua. Se, a partire del testo originale, si creasse un nuovo testo in una certa misura attraente e interessante, io mi sentirei già completamente soddisfatto.
- Nel 2016 hai vinto il premio Rolex Protegé e avviato una collaborazione con Mia Couto, ti va di parlarcene? Sta forse nascendo un’opera a quattro mani?
Beh, devo dire che si tratta di un’esperienza simile a quella della traduzione. Cerco di tradurre a Mia Couto, pur condividendo la stessa lingua, alcuni dei miei dubbi e delle mie inquietudini più intime. A sua volta, lui mi risponde non con certezze e conoscenze pregresse, ma con i suoi stessi dubbi e inquietudini. Di fronte a questo, conta poco il risultato, almeno per adesso: l’importanza risiede nel ricco interscambio di esperienze.
- Fai parte del gruppo di autori che qualche anno fa è stato scelto dalla rivista letteraria Granta per rappresentare il futuro della letteratura del tuo paese. Ora che sei un autore affermato, c’è qualche giovane autore che pensi potrebbe seguire i tuoi passi?
Caspita, in realtà sto ancora riflettendo bene su quali saranno i miei, di prossimi passi. Quando affrontiamo un qualcosa di così inapprendibile come scrivere, sembra che non sia mai possibile imparare il mestiere, e che si finisca solo per avanzare immersi nei dubbi e nella sfiducia. In questo aspetto penso di accompagnarmi a un’infinità di giovani scrittori. Vero è che il Brasile sta vivendo un momento interessante, caratterizzato da una proliferazione di voci e prospettive.
- Da mesi, il Brasile è scosso da scioperi e scontri contro la riforma del lavoro e il governo Temer, puoi dirci qual è l’aria che si respira attualmente nel paese?
L’aria che si respira nel paese, non solo in questi mesi ma negli ultimi due anni, è un’aria irrespirabile, esasperante. Il periodo democratico più lungo nella storia brasiliana è stato interrotto bruscamente. Al suo posto stiamo vivendo i più scabrosi regressi in ambito sociale ed economico e una depredazione dei diritti fondamentali che non era ancora stato possibile instaurare pienamente. Sono tempi oscuri, non solo qui, ma in tutti i paesi in cui il mercato finanziario si mette a dettare le regole della politica. Ora la lotta dovrà essere lunga, fino a che non verrà finalmente dissipata tutta questa nebbia.
[1] In parte tradotta in João Cabral de Melo Neto, Museo di tutto, a cura di Adelina Aletti, Milano: Scheiwiller, 1990.
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L’autore
Julián Fuks è uno dei più famosi scrittori brasiliani della nuova generazione. L’ultimo dei sui quattro romanzi (A resistência, sulla dittatura militare in Argentina e la conseguente fuga di molti intellettuali per sfuggire al regime) ha vinto il Prêmio Jabuti, il più importante riconoscimento letterario brasiliano. Nel 2012 è stato inserito dalla rivista letteraria Granta tra i venti migliori giovani scrittori brasiliani. Nel 2016 è stato scelto da Rolex per il programma “Maestro e Allievo” avviando una collaborazione con il grande romanziere mozambicano Mia Couto.
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