Ciao Antonio, visto che il pubblico italiano ancora non ti conosce, puoi dirci cosa si possono aspettare i tuoi lettori da questa raccolta di racconti?

Ho scritto questi racconti all’apice della mia ossessione per l’opera di Bolaño e di Vila-Matas, autori che ho studiato durante il mio dottorato in Letteratura comparata. Dopo aver riflettuto tanto sulla metaletteratura, ho deciso di creare i miei racconti muovendomi sugli stessi binari, ma con un obiettivo ben preciso: desideravo scrivere un libro che non fosse destinato quasi esclusivamente a letterati, ma che potesse rivolgersi anche al lettore comune, una celebrazione dell’atto della lettura. Penso a La pagina infestata dai fantasmi come a una lettera d’amore ai libri, una lettera d’amore acida e ironica, sempre che sia possibile.

Il racconto che dà il titolo alla raccolta, ambientato a Buenos Aires, vede la protagonista e un tassista schierati come in un derby tra sostenitori di Borges e di Cortázar. Tu per quale “squadra” tifi?

Cortázar è stato uno scrittore fondamentale per la mia formazione come lettore; è stato il primo autore “serio” che ho letto, solo dopo ho scoperto la sua grande influenza sull’intera letteratura latinoamericana. Detto questo, dal mio punto di vista è un autore che è invecchiato male da diversi punti di vista – lo considero ripetitivo e offuscato. Oggi faccio fatica a sopportare Rayuela e Storie di cronopios e di famas, pur ammirando i suoi racconti migliori contenuti nel Bestiario e in Tutti i fuochi il fuoco. Borges, invece, non accenna a diminuire di importanza davanti ai miei occhi. Finzioni è un libro a cui ritorno costantemente.

Ne “La breve storia di Charles Mankuviac”, lo scrittore protagonista di questo racconto non accetta una critica al suo romanzo riportata su un quotidiano statunitense, dandone la colpa a un problema di traduzione. “Nessuna parola ha un equivalente in nessun’altra lingua. L’inglese, ad esempio, ha un ingombro lessicale che, trasportato in portoghese, è come cercare di infilare un elefante nella cuccia di un cane”. Essendo tu stesso traduttore, qual è il tuo rapporto con questa arte?

Traduco dallo spagnolo e dall’inglese e, riflettendo su quest’arte, ritengo che le traduzioni dall’inglese, per ottime che siano, portano con sé una certa perdita lessicale, una specificità, un aspetto che condivido con la visione di Mankuviac riportata sopra. La stessa cosa non si verifica con lo spagnolo, a causa della vicinanza con il portoghese. Tuttavia, quanto detto si riferisce unicamente al concetto di “fedeltà all’originale”, come se la fedeltà fosse garanzia di qualità. In realtà, la situazione è molto più complessa. Una traduzione ben fatta è in grado di migliorare un libro. Può fungere da ponte con un’altra cultura. Ho dichiarato più volte che i miei libri risultano migliori in francese: è la spiegazione che mi sono dato per motivare il fatto che “F”, ad esempio, ha ottenuto in Francia recensioni molto più lusinghiere rispetto al Brasile.

Ne “Il sequestro di Cervantes”, il protagonista scopre un complotto basato sull’”alterazione letteraria progressiva” del Don Chisciotte, tale da rendere il povero Quijote non più un utopista, ma semplicemente un miope, incapace di distinguere tra mulini e soldati a causa di un mero difetto visivo. A giudicare dai tempi che stiamo vivendo, non credi che questo progetto potrebbe già essere in atto?

Questo è il tipico esempio di racconto influenzato da Borges, di cui ho già parlato. Ritengo che più che pensare al modo in cui la politica finisca per mettere le mani sui testi risulti più interessante riflettere su come le interpretazioni varino nel tempo e sui rischi di una profonda moralizzazione della letteratura, ovvero un tentativo di applicare sconsideratamente valori morali contemporanei a opere (e alla vita privata degli autori) del passato.

In “quel maledetto accento russo”, rendi plausibile il fatto che Anna Kournikova abbia preso il posto di Thomas Pynchon e scritto di suo pugno i nuovi romanzi dell’autore. Come diavolo ti è venuto in mente?

Ahahah! Sono un grande, grande appassionato di Thomas Pynchon, e ho atteso impazientemente il lancio del suo romanzo “Contro il giorno”. Mi ricordo di aver letto una recensione negativa, in cui si affermava che il libro sembrava scritto da un fan di Pynchon. Il racconto è nato in quel momento: e se davvero fosse stato sostituito da un fan? Poi ho pensato: quale potrebbe essere la persona più improbabile al mondo per ricoprire questo ruolo? In difesa di “Contro il giorno”, dissento totalmente con l’autore di quella recensione, il romanzo è uno dei migliori di Pynchon!

In “Da qualche parte nel tempo”, rievochi un’infanzia passata tra librigame e videogiochi, che ha influenzato la tua scelta di diventare scrittore. Considerando il fenomeno del retrogaming, credi che oggi si possa avere nostalgia dei videogiochi del passato?

Ho scritto il racconto prima della nascita di quel fenomeno, ancora prima dell’avvento di GOG (Good Old Games, sito specializzato nella vendita di vecchi videogiochi funzionanti nei computer moderni). Ritengo che la nostalgia per i vecchi giochi sia un tratto distintivo della mia generazione, quella nata negli anni Ottanta, pertanto il successo del retrogaming non è che un modo di monetizzare questa nostalgia. Lo stesso si verifica nella musica (se ne trova traccia in “F”) e nel cinema (un aspetto esplorato da serie come “Stranger Things”).

I tuoi due romanzi principali, “F” e “As perguntas”, parlano rispettivamente di una killer che riceve l’incarico di uccidere il regista Orson Welles e dell’indagine compiuta da una dottoranda in storia delle religioni su una setta che minaccia la città di San Paolo, con svariati riferimenti ai film horror italiani degli anni Settanta. Considerando la forte impronta cinematografica di queste opere, qual è il tuo rapporto con la settima arte?

Sono cinefilo ancora prima di essere lettore. Negli ultimi anni, ho cercato di liberarmi da questa influenza cinematografica così presente nella mia opera, di esplorare altre direzioni, ma la verità è che molte delle mie idee sono piuttosto visive, sono fondate sull’immagine, sono fatte per essere inquadrate. Strano è che, anche se molti lettori considerano i miei libri “cinematografici”, non sarebbe affatto facile adattarli per il cinema, a causa di un ostacolo insormontabile: nei miei romanzi c’è molta azione interna, i protagonisti passano molto tempo a riflettere, mentre il cinema ha bisogno di azioni esterne, di movimento, non di pensieri.

Per informazioni sull’opera: La pagina infestata dai fantasmi

 

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