Riportiamo un estratto dal racconto La pietra e il flauto, scritto da Giovanna Rivero e tradotto dallo spagnolo da Vincenzo Barca:
Può darsi che sia lui, ma forse no. La strada formatta le facce degli indigenti tutte con lo stesso rictus. Questa idea in realtà non è mia, l’ho sentita da Mark un sacco di volte, quando dovevamo preparare le sintesi delle interviste a quelli che si sono autonominati suoi “discepoli”. Guance scavate, labbra secche, sguardo fisso. Tutti dicono praticamente la stessa cosa, che lui vive come uno di loro, divide le sue razioni di cibo, dorme sugli stessi cartoni, patisce lo stesso freddo della notte, respira la stessa aria putrida che proviene dalle fogne e, ovviamente, anche lui capisce il linguaggio dei topi. E che quando qualcuno si ammala, lo tiene abbracciato tutta la notte, proteggendolo da qualunque visita indesiderata. Inutile dire che tutti i nostri intervistati appaiono simili, guance scavate, labbra secche, sguardo fisso e profondo, quest’ultimo forse unico sintomo vitale in questi corpi devitaminizzati, deproteinizzati, si potrebbe quasi dire disabitati, corpi usati solo per altre necessità, che vanno al di là della carne e delle sue piccole soddisfazioni fisiologiche.
Mark lo ha soprannominato “il flautista di Hamelin”, per la storia dei topi, ma, nello specifico – ed è questo il dettaglio che in effetti ha innescato la mia ipotesi – il suo strumento, secondo i successivi testimoni, non è esattamente un flauto, ma piuttosto un’invenzione nata dalla povertà e dal caso. Avevano bisogno di avvisarsi tra loro quando c’era una retata e dovevano farlo con qualcosa di più efficace dei loro corpi malati, al che lui aveva improvvisato quel flauto amaro con un pezzo di tubo Bergman, resto di qualche tubatura rotta: ci aveva fatto tre buchi con un chiodo arrugginito e ci aveva soffiato dentro. Venne fuori un suono acido e roco, che avanzava lungo l’utero profondo della fognatura; dalla combinazione irregolare di un’onda dopo l’altra, e di un’altra ancora, non si poteva certo dire, come sostengono quelli che l’hanno sentita, che ne venisse fuori una canzone, una minima melodia: si trattava piuttosto di una vibrazione oscura, profonda, che rimbalzava nei reni e ti faceva venire voglia di piangere.
Fatto sta che adesso, dal finestrino dell’autobus, mentre alla radio un presentatore dalla voce stentorea improvvisa un’analisi di “Le ore di acefalia della Grande Babilonia” (quando il pianeta si coprirà di tenebre ma si tratterà solo di una momentanea e necessaria bruma morale e blablabla) scorgo il profilo del flautista che cammina lungo il viale, diretto verso i canali, seguito da due adolescenti cenciosi. Nella luce del pomeriggio, il suo viso rivela angoli meravigliosi. Tento di far quadrare quei lineamenti con la faccia che, sia pure un po’ sfocata, ho conservato in quel casino di armadio che è la mia memoria per tutti questi anni.
Seria per un giovane che aveva appena passato la ventina, la faccia di mio zio mi sembrava quella di un eroe hippy. Mia madre definiva hippy tutti quelli con la barba e i capelli un po’ lunghi, ma sapeva, e io sapevo che lo sapeva, che quel cugino acquisito, mio zio, era qualcosa di più di questo. Quando andavamo in merceria a comprare i filati con cui mia mamma eseguiva ossessivamente i lavori a macramè per coprire tavoli, decorare amache, water, letti e pavimenti, vedevamo hippy dappertutto, perché la merceria si trovava nella stessa via del negozio di dischi sulla cui soglia i capelloni si appostavano a fumare ascoltando gratis la musica che usciva dal negozio. All’epoca io non sapevo che quell’urlo acuto e affascinante, quello strillo che invocava o annunciava o piangeva un’estate sanguinosa, era la voce di Janis Joplin.
Mia mamma ancora non mi aveva detto che con lui non ci parlava, ma il fatto che lei stessa imponesse una distanza muta funzionava come una censura. Se noi abitavamo tutti uno sopra l’altro nella stessa casa era perché a mio padre mancava “poco” per laurearsi e perché mia nonna non poteva, non voleva, chiedere a mio zio di cercarsi un altro posto, o mandarlo nel Chaco dove mio nonno aveva una masseria, privilegio che si era guadagnato prima come ex-combattente e poi come rivoluzionario durante i disordini della Riforma Agraria. Questo Chaco era il deposito di tutti i segreti. Oltretutto, che ci sarebbe andato a fare mio zio in quelle terre? Lui era buono solo a leggere quei grossi libri con le figure di esseri umani esposti, a fumare meditando sull’immortalità delle mosche e ad ascoltare per l’ennesima volta lo stesso LP in inglese. «È un orfano», diceva mia nonna, anche se allora quella compassione mi sembrava una grandissima esagerazione per uno che era ormai un uomo fatto. Mia madre aveva sepolto anche lei sua madre in quegli anni e non si definiva un’orfana. Forse mia nonna voleva semplificare i suoi sentimenti, il dispiacere o la colpa di non aver capito meglio la sorella, «la buonanima» come chiamava di solito quel fantasma, perché questo era, da cui quella specie di vergogna nel crescere mio zio, in un susseguirsi di interpretazioni idiote. «È orfano e non dà mai fastidio». Ed era vero, mio zio passava la maggior parte dell’anno a Sucre, dove studiava medicina, e durante le vacanze usciva poco dalla sua stanza. E quando ne usciva era come se un morto sgradito ritornasse dall’inferno e cominciasse a chiedere spiegazioni, anche se non diceva né ai né bai. Si appoggiava ai tronchi ornamentali su cui la mamma esponeva i suoi lavori a macramè e fumava con una serenità inquietante. Tutto questo lo comprendo meglio oggi, con le risorse dell’età adulta, ma all’epoca si poteva dire che ero semplicemente affascinata, o ipnotizzata, o innamorata. Cose da ragazzine.
Per questo, l’identikit che traccio dei lineamenti del flautista non è per niente affidabile. Pure la nausea, che persiste a causa dei vergognosi quantitativi di antivirali che ho dovuto prendere per l’herpes, mi costringe a tenere la colonna attaccata allo schienale del sedile. Oltretutto, l’autobus ha cominciato a rallentare nell’ingorgo delle tre del pomeriggio e adesso vedo il flautista solo di spalle, mentre scende costeggiando il canale con i suoi due discepoli improvvisati. I capelli bianchi, arruffati, sono ancora giovanili. Erano i capelli, forse, ciò che più amavo di lui. Ho detto “amavo” perché è vero, a sette anni puoi amare, in un modo intuitivo, incompleto e meravigliosamente irrazionale.
La versione integrale del racconto è contenuta in Messia – Traviesa 2.