“Musica per aeroporti” è la tua terza opera pubblicata in Italia, quale pensi che possa essere il legame tra l’Australia, un paese così lontano e in gran parte sconosciuto al pubblico nostrano, e l’Italia?
La prima cosa che mi viene in mente è il rapporto che gli scrittori australiani di fine secolo (il periodo in cui penso che l’Australia inizi davvero a produrre opere di livello mondiale) hanno con l’Italia. David Malouf, uno dei nostri più grandi scrittori, ha trascorso molto tempo in Toscana, e i suoi scritti riguardano quasi esclusivamente l’Italia e l’Australia. Robert Dessaix è un altro autore che mi ha influenzato, ha trascorso molto tempo in Italia e ne ha scritto molto bene, specialmente nel suo romanzo Lettere di notte. Ci sono corrispondenze nei paesaggi: la prominenza del sole, l’aridità relativa. Non è stato detto abbastanza sull’influenza particolare del paesaggio sugli autori – non i paesaggi di cui scrivono, ma i paesaggi in cui sono immersi quando scrivono, i paesaggi in cui sono cresciuti… le loro semplici qualità fenomeniche e il loro effetto sull’immaginazione. So che c’è una sorta di qualità pigra e bruciata dal sole, ad esempio, in Tomasi di Lampedusa, a cui rispondo immediatamente. Lo stesso vale per Dino Buzzati.
Uno dei fili conduttori di questa raccolta di racconti è il tema dell’esilio, che vede vari protagonisti alle prese con inferni terrestri e purgatori della modernità, ti senti anche tu un esule?
Sono cresciuto come cattolico, poi da adulto mi sono convertito all’ortodossia greca. Ogni cristiano ortodosso sa di essere una specie di esule sulla Terra… Nella mia narrativa, non mi interessa promuovere una fede particolare, o la fede in generale, ma le storie di Musica per aeroporti danno spazio a quella sensazione che penso che tutti noi a volte abbiamo quando incontriamo un bel paesaggio (naturale o artificiale); la sensazione di aver intravisto la periferia di una casa spirituale, qualcosa di diverso, oltre i confini del mondo quotidiano. Più pragmaticamente, penso che nell’era della supermodernità stiamo tutti perdendo i nostri legami con i luoghi per diventare, come dice Pico Iyer, “anime globali”. Ci sono sfaccettature buone e cattive in questo. Da un lato, c’è il senso di libertà da un’identità sociale restrittiva e legata ai luoghi, la possibilità di seguire nuove traiettorie, ma anche la possibilità di perdersi spiritualmente. Mi piace pensare che le mie storie di supermodernità cavalchino il confine tra la perdita e la scoperta di nuovi telos e traiettorie.
Un altro tema ricorrente è quello dei non-luoghi della nostra società, come i centri commerciali, le sale d’attesa degli aeroporti e tutte quelle strutture artificiali uguali in tutto il mondo. Credi che il viaggio possa essere ancora un’esperienza in grado di aprire la mente, come avveniva nell’Ottocento con i Grand Tour in Europa, oppure la globalizzazione è riuscita ormai a uniformare gran parte delle diversità che hanno sempre rappresentato una ricchezza? Ha ancora senso viaggiare? E come?
Penso che il viaggio possa essere ancora fruttuoso, anche se, sempre più spesso, rappresenta un viaggio tra i nodi in un’architettura globale di mobilità. Anche quando siamo in un luogo, ad esempio Singapore, è abbastanza facile passare tutto il tempo tra aeroporti, treni navetta, hotel internazionali, come il Marina Bay Sans, senza che i nostri piedi raggiungano mai la terra. Vediamo il ‘luogo’, per così dire, da lontano e dietro un vetro, per cui diventa sempre più spesso una sorta di schermo bidimensionale che non possiamo influenzare e che ha una limitata capacità di influenzarci. Questi viaggi, che potrebbero essere considerati l’antitesi dei Grand Tour, offrono potenzialmente qualcosa di simile al pellegrinaggio solitario, in cui il viaggiatore entra invece di uscire. Così, il viaggiatore può arrivare a contemplare se stesso come un sé al di fuori da tutti i normali punti di riferimento sociale. C’è qualcosa in tutto questo che deve ancora essere compreso appieno, che ho cercato di esplorare nei racconti di Musica per aeroporti e che sto inserendo nel mio prossimo romanzo.
“Fiammelle di mare su Sixth Island” è una storia struggente che racconta dell’amicizia nata tra due ragazzini in un’isola. I due si ritrovano in spiaggia alla ricerca delle “fiammelle di mare”, dei piccoli insetti che si illuminano di rosso quando vengono disturbati. Come è nato questo racconto?
La prima scintilla dl racconto fu il mio desiderio che tali creature (con poteri di bioluminescenza) abitassero davvero quelle acque dove avevo vissuto così a lungo. Volevo portare qualcosa di fantastico nel mondo reale e renderlo naturale. Solo in seguito ho scoperto che ci sono fitoplancton bioluminescenti a Moreton Bay, quindi, anche se non si tratta proprio di fiammelle di mare, la mia fantasia non era stata poi così fervida come pensavo all’inizio. Poi, ho capito che quella creature, per come le immaginavo, dovevano essere rare e fragili, e le ho istintivamente associate a una ragazza la cui vita le viene strappata via troppo presto. Da qui la storia.
La perdita dell’innocenza dell’infanzia, per il logorio della vita o per atti violenti, compare spesso nelle tue opere. Ne hai nostalgia?
Fiammelle di mare su Sixth Island parla sicuramente di questo. Leggendo quei racconti ora, da uomo di 42 anni, mi rendo conto che sono racconti della mia gioventù. Anche se il libro è stato pubblicato per la prima volta in inglese quando avevo circa 35 anni, almeno la metà delle storie sono state scritte quando ero vicino ai trenta, e le più datate quando avevo 23 anni. Quello che mi manca, e quello che a cui penso si riferiscano l’immobilità e il vuoto di quelle storie, è il senso di quieta solitudine che non credo che nessuno nei paesi anglofoni, europei ed est-asiatici urbani senta più, bombardati da informazioni come siamo, costantemente “connessi”. È strano pensare a quando il mondo non poteva parlarti, e tu non potevi parlare con il mondo. L’unica cosa che potevi fare era leggere un libro su luoghi e tempi lontani, ma questa era, inevitabilmente, solo una voce che parlava da qualche altra parte. Non la “bocca” collettiva e globale che richiede la tua attenzione, come avviene ora via internet. C’era una pace speciale in questo. La tua mente era la tua. Non colonizzata. In molti racconti del libro sento quell’innocenza, e mi manca. Ma è interessante che tu identifichi le minacce nelle storie come una minaccia all’innocenza. Al momento di scrivere questi racconti, ricordo di aver avuto la sensazione che il mondo online fosse troppo banale e brutto per scriverne, ma ora mi chiedo se in fondo non fosse quella la minaccia che vedevo ovunque ai confini dei mondi idilliaci da cui molte di quei racconti si estendono, la cui minaccia assume altre forme.
In questa raccolta di racconti, in particolare in “Integrità”, alcuni luoghi sembrano avere un’anima e interagire con i protagonisti a un livello spirituale. Come ti rapporti in genere con gli spazi, la toponomastica, le mappe? Dove finisce l’anima del paesaggio e comincia quella dell’uomo?
Una mappa è utile per la comprensione iniziale di un paesaggio, e certamente, le mappe idiosincratiche, quelle senza un evidente scopo industriale (anche se ormai raramente vengono disegnate) forniscono informazioni preziose. Ma nessuna mappa racconta mai l’intera storia di un paesaggio. Un paesaggio nasce attraverso le proprie forme ed energie, e gli incontri umani registrati o ricordati, un catalogo che nessuno può racchiudere, o conservare a lungo anche se potessimo ricevere tutte quelle informazioni… la memoria non funziona così. Come dice Marc Augé, ricordiamo attraverso un processo di dimenticanza, come l’oceano lavora sulla riva, rendendo riconoscibili le forme spogliandone alcune. Questo è ciò che ho voluto ottenere con “Integrità”… quel senso di un paesaggio che conserva qualcosa di inconoscibile, di misterioso.
L’Oriente è un tema ricorrente sia in questa raccolta sia nelle altre due tue opere pubblicate in Italia. Cosa ti attrae dell’Asia, cosa ti ha spinto ad esplorarla nei tuoi viaggi per così tanto tempo?
In primo luogo, come australiano, mi sembrava il posto più strano in cui potessi andare, il meno simile al mondo che conoscevo, ed era proprio a due passi da casa. L’Asia combina un passato incredibilmente ricco, registrato, ricordato, con una vitalità che non ha eguali in nessun altro continente. Città come Pechino, Tokyo e Saigon sono così diverse dalle città dell’Occidente, che pur essendo belle possono sentirsi molto più controllate e placide, mentre quando ci si trova in quelle città asiatiche è possibile sentirsi davvero fuori dal mondo familiare. È stata un’esperienza, come scrittore e viaggiatore, che desideravo fare. Parlo cinese e vietnamita, ma anche ora, ci sono ancora conversazioni che non capisco, e poi mi piace la sensazione di stare seduto in un luogo affollato e ascoltare la gente che parla, senza capire.
Il racconto che dà il titolo alla raccolta parla di un diplomatico che riceve una telefonata inaspettata che potrebbe salvare la vita di un uomo. Il titolo descrive perfettamente il senso di straniamento che si vive nella hall di un aeroporto e di una vita vissuta tra non-luoghi. È questo sentimento che impedisce al protagonista di compiere l’unica azione “umana” della sua vita?
Sì. Come ho detto, penso che i non luoghi del XXI secolo offrano al viaggiatore supermoderno un particolare senso di pausa, di intermezzo, dove è possibile recuperare un sé autentico e dove nuove traiettorie possono essere tracciate o abbandonate. Il diplomatico avrebbe potuto salvare la vita del giovane se solo i suoi compiti, o i suoi superiori, glielo avessero richiesto. Volevo catturare quel senso di libertà evocativa, bella e pericolosa che sentiamo nei non luoghi. In quella storia l’anima del protagonista è stata carente.
“L’origine del silenzio” affronta il tema dell’assassinio di una ragazza, rappresenta il nucleo del romanzo “The Mary Smokes Boys” e si ricollega a un episodio da te vissuto in prima persona. Quanto è difficile inserire parti dolorose della propria vita nella trama di un romanzo?
Ho scritto quella storia, o meglio quel tragico evento, in varie forme così tante volte che è diventato mitico (a livello personale), al punto da farmi subito preoccupare quando mi viene chiesto di commentarlo: l’evento reale si perde, ed è doloroso per me solo in base a quanto lascio che lo sia, nella misura in cui amo i personaggi di mia creazione che incarnano l’evento. Forse è per questo che non ho mai pubblicato nomi o date particolari legati a quell’evento, anche se suppongo che sarebbero abbastanza facili recuperare se qualcuno fosse interessato, perché anche in The Mary Smokes Boys la storia passa rapidamente a incentrarsi su qualcuno che non è la ragazza che (almeno in parte) ha tirato i fili della narrazione. Penso che sia molto facile per scrittori e artisti cooptare il dolore degli altri, e sono diffidente a farlo. È stato un evento traumatico, per tutti nella città in cui sono cresciuto, per mia sorella e i suoi amici molto più che per me. Ma poi, per essere onesto con me stesso e per rispondere in modo più specifico alla tua domanda, il mio modo di affrontare il dolore personale è di mascherarlo, per renderlo simbolico piuttosto che “reale”. Forse questa è una delle principali vocazioni della narrativa e della narrazione: prendere gli eventi casuali e caotici della vita, in quello stato in cui possono fare più danni, e sottometterli al mito, in modo che diventino comprensibili e persino utili.
Nelle tue opere ricorre spesso il tema della santità e della fede, coniugato nei contesti più disperati e oscuri. Qual è il tuo rapporto con la religione e la spiritualità in genere?
Attraverso periodi di fede devota e diametralmente opposti. Da bambino volevo essere un sacerdote e un monaco. Questo, forse, perché un piccolo sacerdote indiano veniva a casa nostra e mi raccontava storie dell’India e, per un ragazzo cresciuto nell’isolamento dell’outback australiano, mi sembrava incredibilmente saggio e curioso, strano come qualcuno proveniente da un altro pianeta. Da adolescente ero un devoto ateo, nell’insopportabile modo di Richard Dawkins, il tipo che se si svegliasse in qualsiasi tipo di vita dopo la morte si infurierebbe per questo. Sono tornato gradualmente alla fede da adulto e, come ho detto, mi sono convertito all’ortodossia greca. A volte vacillo, almeno in termini di osservanze effettive: andare in Chiesa, ricevere i sacramenti. La fede richiede molta energia. L’Australia è uno dei paesi più secolari del mondo e trovo più facile praticarla in Vietnam, dove passo molto tempo. Ma la fede non scompare mai davvero. Alla fine, non posso non credere.
La tua ultima opera è One, pubblicata nel 2016, che parla di James and Patrick Kenniff, the last bushrangers in Australian history, a cosa stai lavorando adesso?
A un romanzo intitolato Il diplomatico, o Oblivion. Si tratta di un uomo che vive tutta la sua vita in non-luoghi, ossessionato da qualche vago dolore del passato e che cerca l’oblio tra le braccia di prostitute, oppio e alcol. Sogna di vivere in un appartamento di lusso (una sorta di non-luogo permanente) che spera di potersi permettere grazie ai suoi loschi affari. Nonostante le sue intenzioni, si innamora di una sorta di cortigiana dell’Asia orientale di alto livello che potrebbe tradirlo. Il romanzo risiede su un terreno simile, o terrain vague, a quello di Musica per aeroporti, anche se questa volta voglio esplorare la possibilità di utilizzare il non-luogo per dare vita a sogni vitalizzanti di riconquista del passato.