Sulle tinte che si estraggono dalle cortecce di tutti quanti gli alberi nostrali
Dal giallo santo al Pompadour chiaro
Nominato abate del monastero di Fonte Avellana nel 1805, Filippo Albertino Bellenghi ebbe modo di rimanervi, per speciale concessione, anche dopo l’incameramento dei beni ecclesiastici promosso dall’occupazione francese dello Stato pontificio, dedicandosi – per evitare compromissioni – allo studio delle scienze naturali. I primi frutti di questo impegno furono i due saggi di chimica e botanica “Sulle tinte che si estraggono dalle cortecce di tutti quanti gli alberi nostrali” (Fabriano 1810) e “Processo sulle tinte che si estraggono dai legni ed altre piante indigene” (Ancona 1811), che firmò con il nome secolare di Filippo (e non con quello religioso di Albertino che ricomincerà ad utilizzare con la Restaurazione) e che ottenne – per la sua precisione – una medaglia d’argento dall’Istituto di scienze, lettere ed arti del Regno d’Italia.
Dedicato alla Società Agraria di Reggio in Lombardia, il saggio “Sulle tinte” mira a favorire, per espressa dichiarazione del Bellenghi, lo sviluppo delle imprese italiane indicando loro dove, come e in quale periodo dell’anno possano trarre dalle cortecce degli “alberi nostrali” le “preziose tinte” di ogni colore.
La corrispondenza tra le cortecce e le “serie dei colori” viene quindi riassunta in un puntuale elenco in calce al volume da cui si evince, per esempio, che dal faggio oltre al color mattone ed al paglia si possono trarre il color canarino ed il Napoleone, così come dal pero domestico si estrae il giallo santo ma anche il Pompadur chiaro.