di Margherita Raggi
“Sulle tinte che si estraggono dalle cortecce di tutti quanti gli alberi nostrali” è una breve opera in forma di opuscolo scritta dal monaco camaldolese Filippo Maria Bellenghi e pubblicata per la prima volta nel 1810. Bellenghi nel testo riporta i suoi esperimenti compiuti durante la sua permanenza al monastero di Fonte Avellana, in particolare fra 1809 e 1810. Gli esperimenti riguardano i diversi trattamenti di cui il Bellenghi si è servito per estrarre dalle cortecce degli alberi del Catria tinte di diversi colori. Le tinte da lui estratte sembrano più convenienti rispetto ai pigmenti esportati dall’estero o prodotti artificialmente in Italia perché non macchiano e non scoloriscono facilmente e possono inoltre essere prodotte con una inferiore spesa monetaria. È presente una lista di tutte le varietà delle cortecce con cui il Bellenghi ha lavorato e tutti i colori che si possono ottenere durante la tintura. L’opuscolo si conclude con una lettera di risposta ad un tintore del luogo che voleva ulteriori informazioni sulle scoperte: questo dimostra l’interesse diffuso per le nuove tecnologie sviluppate dal Bellenghi e l’intenzione di volerle applicare su grande scala. Con questa lettera il Bellenghi dimostra però anche l’interesse per la diffusione del suo scritto e infatti non fa grandi anticipazioni al suo corrispondente per non andare a pregiudicare l’interesse comune.
Il testo ha permesso una lettura scorrevole e chiara e una conseguente trascrizione facilitata anche dalla non considerevole distanza nel tempo dal momento della composizione e stampa dell’opera. Alcuni punti sono risultati particolarmente stimolanti in quanto presentano citazioni e rimandi ad altre opere e luoghi noti. La varietà e vastità degli aspetti legati al reperimento e trattamento delle cortecce ha permesso di affacciarsi in modo semplice ma puntuale ad una scienza che grazie allo stesso Bellenghi ha ricevuto un ulteriore stimolo. Bellenghi è infatti ricordato grazie ai suoi studi nei campi della chimica e della geologia. La chimica viene da lui in particolar modo applicata in occasione degli studi che portarono alla redazione di questo opuscolo.
Un particolare che mi ha incuriosita è che la citazione “gente a cui si fa notte innanzi sera” è attribuita dal Bellenghi a Dante anche se, in base alle ricerche che ho compiuto, sembra tratta da un detto popolare che riprende e modifica una terzina di Dante tratta dal canto XIV del Purgatorio e cioè:
Ben fa Bagnacaval, che non rifiglia;
e mal fa Castrocaro, e peggio Conio,
che di figliar tai conti più s’impiglia.
“Gente a cui si fa notte innanzi sera” è una frase che si trova invece nel “Trionfo della morte” scritto da Petrarca dopo il 1350.