di Horacio Cavallo
Riuscii a dimenticare il volto dell’annegato. Mi ci volle tempo, notti di febbre, di tremori, il grido che faceva accapponare la pelle a mia madre, per farle salire le scale e consentirmi di tornare a dormire sentendo la sua mano tra le mie. Riuscii a dimenticare il suo volto. Da allora mi accompagnano il corpo ritorto, il bianco della carne e una certa chiarezza in ogni cosa che ho ritrovato solo di mattina presto, evocando sogni freschi.
Del cammino dell’andata ricordo solo gli uccelli. Sotto di loro, il passo del nonno sul pietrisco, con quei sandali che nascondevano dei piedi che non vidi mai. Non voleva spaventarmi dato che gli mancavano tre o quattro dita. Avanzavamo sul bordo della strada, in penombra, seguiti dal suo cane. Un cane magro, parco, che abbassava la testa solo davanti al nonno e che mi dava colpetti sulle gambe con la coda. Il nonno voleva arrivare alla riva qualche attimo prima che sorgesse il sole. Insisteva con quella idea dalla notte prima. Non ricordo cosa disse esattamente. Costruiva ogni cosa a mano a mano che passava il tempo.
Si sedette sulla sabbia con un certo sforzo. Il cane se ne andò ad annusare i pesci morti, poi inseguì i gabbiani ammassati che prendevano il volo lanciando grida. Sorrisi assonnato guardando il nonno e mi lasciai cadere. Dopo il sorriso mi disse qualcosa e indicò verso est. Il cielo si schiariva.
Poi corsi verso la riva, misi i piedi in acqua e andai dietro al cane. Mi scordai del rituale, anche se sapevo che non appena fosse spuntata la mezzaluna d’argento il nonno avrebbe rivolto un grido al cielo. Corsi verso i gabbiani come aveva fatto il cane un attimo prima. Si erano raccolti lì in alto e aprii la bocca per quanto potei. Quando abbassai gli occhi, era lì. Non riesco a descriverlo. Ci ho provato. So che arrivò il nonno, che mi chiamò cento volte e che non riuscii a muovere un dito. Mi tappai gli occhi con le mani, gridai come i gabbiani prima di essere avvolto dalle braccia enormi del nonno. Anche lui gridò come i gabbiani, le sue braccia enormi tremarono, tornò a dire al cane di allontanarsi e io sentii qualcosa di caldo e denso che mi scendeva dalle gambe.
Sulla strada del ritorno non dicemmo nulla. So che il nonno provò a rintracciare mio padre a Montevideo, ma non ci riuscì. Passammo diverso tempo al bar con la scusa della telefonata, poi lui parlò tra sé guardando il bicchiere. Non volli pranzare. Insistetti a dire che volevo vedere mia madre. Mi assicurò che sarebbe arrivata poco prima che facesse buio. Tornammo nella casa che aveva preso in affitto in via Yacaré e sotto l’ombra del nespolo mi misi a perseguitare con un bastoncino le formiche che giravano sopra ai frutti. Fu allora che vidi che il sole era alto. Un brivido mi percorse tutta la schiena.
Traduzione di Giacomo Falconi. Trovi il resto del racconto ne Il silenzio del fiume