Calligrafia dello stupore
Tradotto da: Alessia Gnudi
ISBN: 9788899958275
Un ingegnere torna nel luogo in cui, più di dieci anni prima, ha vissuto una passione segreta che ancora oggi non lo ha abbandonato. Ripercorrerà il suo cammino tra gli alberi, la terra e una casa da abbattere.
L’autore:
Rafael Bán Jacobsen è nato nel 1981 a Porto Alegre, in Brasile. È autore dei romanzi Tempos & costumes (Ed. Alcance, 1998) e Solenar (Ed. Movimento, 2005), entrambi vincitori del Prêmio Açorianos per la letteratura (premio per la narrativa lunga e per la migliore narrativa lunga), e di Uma leve simetria (Não Editora, 2009). Ha partecipato a diverse raccolte di racconti, tra cui Ficção de Polpa, volumi 1 e 2 (Não Editora, 2008). È fisico, docente, pianista e scrittore. Attualmente è ricercatore in cosmologia e fisica nucleare e delle particelle all’Università federale del Rio Grande do Sul.
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Un piccolo assaggio...
Calligrafia dello stupore
Siamo arrivati, dottore, ecco il terreno, dice l’autista dell’impresa edile poco prima di parcheggiare davanti al muro bianco che, riflettendo direttamente il sole, brilla e quasi accieca. È inappropriato usare la parola terreno, penso; dopotutto, secondo quanto figura nella cartellina, ci sono ancora due case lì e la demolizione comincerà solamente il mese prossimo; però l’autista ha ragione: per noi è solo un altro terreno e non importa che cosa c’è lì, va distrutto per far spazio al nuovo. Socchiudo gli occhi per guardare attraverso le sbarre del cancello e, in quell’istante, la certezza mi soffoca: è lo stesso posto di quel carnevale. Più di dieci anni fa.
Il custode ci accoglie senza indugio e, nonostante l’età stampata nelle pieghe della pelle arsa e nei capelli sbiaditi, cammina spedito, guidandoci per la proprietà con una sollecitudine che non cela del tutto la sua insoddisfazione – forse tristezza – nel dover aprire le porte della casa dove ha sempre vissuto a chi vuole demolirla; sì, è lo stesso di allora, sebbene non possa riconoscermi tra i tanti che hanno trascorso le vacanze qui. Sul lato sinistro, la villetta squadrata priva di stile, i muri grezzi, che sembrano ancora un’opera incompiuta; più a destra, la casetta dove abitava l’anziano; nel cortile in mezzo, come in passato, le galline scorrazzano da una parte all’altra, beccando le briciole, svolazzando di tanto in tanto ma – come se obbedissero a un segreto imposto dal gruppo – non scappano mai sul retro, dove si alternano cespugli spinosi, palme da cocco e altri alberi da frutto. A me, abituato alla sobrietà delle araucarie e dei cipressi, il paesaggio tropicale sorprende sempre, per quanto sia abituato a viaggiare e, da due mesi, viva a migliaia di chilometri dal sud. Mi perdo per qualche secondo nella contemplazione delle chiome degli alberi che, con tanta disinvoltura, mescolano foglie e frutti, sovrapponendo le gocce rosse delle pitanghe ai cuori arancioni degli anacardi; da dove siamo, però, è impossibile vedere il tamarindo, l’albero preferito di Tales, il cui segreto è anche un po’ il mio.
Mentre passeggiamo per la proprietà, il custode racconta del terreno, delle peculiarità della cittadella e, con la tranquillità di chi non ha più niente da perdere, anche della sua delusione nei confronti dei padroni per la vendita; eppure io gli presto poca attenzione, perché i miei sensi sono inebriati dal riemergere di quel febbraio finora sbiadito. Improvvisamente non sono più l’ingegnere neoassunto, responsabile della progettazione di un condominio lungo la costa nel nord del paese, non sono né padre né marito; sono il ragazzo all’ultimo anno di università che è stato mandato dalla madre a passare le vacanze con una zia paterna quasi sconosciuta; cammino, nuovamente, sul terreno polveroso con i piedi cauti di allora, i piedi di chi avrebbe incontrato persone più simili a figure sfocate che a esseri fatti di carne, ossa e sogni (e, dopo tutto, avrei conosciuto i sogni di uno solo di loro).